Stufo delle solite cose, dei
soliti discorsi, dei soliti pregiudizi, dei soliti stereotipi, stufo. Così
stufo che era finito ad incarnare perfettamente lo stereotipo dell’artista
fallito e senza un soldo che emigra all’estero in cerca di fortuna.
Sull’aereo che l’aveva portato a
destinazione c’erano probabilmente un altro miliardo di disperati che come lui
sognavano una carriera nel mondo dell’arte ma che sarebbero finiti a insaponare
piatti e a tagliare libbre e libbre di cavolo. Ma Vincent no. Lui ce l’avrebbe
fatta. Lui era bravo davvero.
I settemila curricula che aveva
mandato dall’internet point che c’era vicino all’ostello erano finiti più o
meno tutti nella cartella spam o, nel migliore dei casi, spostati
frettolosamente nel cestino: la foto che ci aveva messo su lo faceva somigliare
a un babbeo in doposbronza e l’email da cui li aveva mandati era la stessa che
aveva creato con suo cugino a quattordici anni, vincy4ever@hotmail.com. Il povero
Vincent non lo voleva assumere nessuno. L’opzione “stampane copie a profusione
e fanne degli origami da far volare in giro per la città, prima o poi qualcuno
lo raccoglierà e deciderà di darmi un lavoro” si era rivelata presto stupida e
infattibile, visto che il primo foglio stampato in bianco e nero in una
copisteria losca gli era costato 1.34£.
Rassegnato a fare la figura
dello sfigato e a tornare a casa da mamma e papà una volta finiti i soldi, o
una volta congelatosi le chiappe a furia di fare l’elemosina, un giorno Vincent
capitò davanti a un ristorante cinese la cui insegna recitava “Vincent Rolls.
Since 1888” e, presolo come un segno del destino, entrò a chiedere se lo
assumevano. Guarda caso Lin Wang, che però si faceva chiamare Benjamin, stava
appunto cercando uno sguattero da schiavizzare, così Vincent si ritrovò con
addosso un grembiule lercio ad affettare libbre e libbre di cavolo. Benjamin sapeva
dire quattro o cinque parole in inglese (tank, sori, tishu, helou, bye), per il
resto si spiegava a gesti: gli spiegò come affettare le verdure e la carne,
come avvolgere gli involtini primavera, come chiudere i ravioli. Vincent era
sicuro che nel menu ci fosse qualcosa che non andava, sicuramente un errore di
traduzione, oppure che Benjamin fosse un gran burlone, anche se non sorrideva
mai; infatti i piatti forti erano: Involtini primavera con Orecchie cinesi,
Cane fritto con riso cinese, Chi-lly-wawa piccante, Cinese alle mandorle. I
clienti, abituali, erano tutti cinesi, loschi quanto il posto e loschi quanto
Benjamin, e Vincent non riusciva a smettere di farsi film mentali sulle loro
vite, se quella ragazza che accompagnavano era la loro figlia o la loro amante,
se dopo il pasto sarebbero andati a casa a stirare le camicie per andare a
lavoro il giorno dopo o se sarebbero usciti a bere una pinta per dimenticare la
giornata appena trascorsa.
A Vincent pareva di vivere in un
sogno, i fumi della friggitrice lo stordivano a tal punto che ogni sera tornava
a casa e dipingeva cose pazze fino all’alba, convincendosi che quello era
sicuramente il periodo più bello della sua esistenza e che in qualche modo il
Vincent Rolls gli stava dando l’ispirazione che era andato cercando per tutta
la vita e che un giorno avrebbe aperto una galleria e la gente si sarebbe
picchiata sull’ingresso. Dipingeva come un pazzo, non mangiava mai (tranne quello
che gli davano al ristorante prima di cominciare il turno), spendeva tutti i
soldi in tele e colori e nella sua stanza microscopica ormai non si vedeva più
la moquette del pavimento. Si era costruito un cavalletto rudimentale appeso
alla parete e dipingeva in piedi sul letto, coprendo le lenzuola con un telo
per evitare di dormire tutto impiastricciato.
Un giorno stava affettando della
strana carne da mettere negli involtini primavera ed era come al solito
stordito e sognante, nel mondo dei minipony volanti, quando sentì una fitta
incredibile all’orecchio sinistro e vide un pezzo di carne volare sul tagliere,
seguito da svariate gocce di sangue rosso. Benjamin, dietro di lui e iniziò a
sbraitare strane cose in cinese. Vincent urlò per trenta secondi, poi si bendò
la testa, si lavò le mani, si ricompose e ricominciò ad affettare la carne e ad
arrotolare gli involtini primavera.
Quella sera tornò a casa e
dipinse un autoritratto.